Clamori al vento
(2015)
Attenzione. Non avvicinarsi a questo libro se non si è disposti a smarrirsi, a smascherare, a essere smascherati. Se non si è disposti a morire intensamente sotto i fuochi della Scintilla. La vera Scintilla, quella dell’arte, quella performativa, è immortale. È capace di sopravvivere a chi l’ha posseduta. Moriremo dolcemente, ferocemente, in un giorno qualunque. La Scintilla naviga, luminescente, verso l’ignoto.
Attenzione. Non avvicinarsi a questo libro se non si è disposti ad accettare che l’unica parola intelligente è quella che si strozza in gola. Dal 1987 Flavia Mastrella e Antonio Rezza condividono il loro percorso artistico. Praticando diverse forme d’arte, hanno fatto del performativo una poetica totemica. Essi erompono come malanni nella vita dello spettatore. Hanno un’ambizione che non è tale perché la soddisfano: perdita del significato residuo e parola alle cifre della carneficina. Irrompono nel teatro devastando il teatro. Generano, in continuazione, fatti nuovi, cortocircuiti, oscurità da eccesso e da difetto. Travolgono e stravolgono. Sfaldano il quotidiano sotto strati di disperatissime strida comiche. Non manipolano il cervello di chi vede: manipolano il corpo di chi guarda.
Si esibiscono sui palchi di questa povera striscia di terra fatta a stivale per galleggiare nella melma e devastano impetuosi i palchi medesimi. Scrivono che il teatro è incivile per definizione. «Un teatro civile per un paese civile è un’utopia non per la civiltà del teatro ma per l’inciviltà del paese.»
Per loro il teatro deve sconfinare. L’arte deve sconfinare. Non c’è nessun futuro per un teatro che privilegia la narrazione allo struggimento.
Dovrebbero esistere leggi speciali che proibiscano la spiegazione di un’opera e impediscano al creatore le menzogne di una storia compiuta. Inscenando corpi corrosi di zoppi, mendicanti e disperati, Flavia Mastrella e Antonio Rezza allestiscono da sempre opere che corrodono; opere dove la poetica del frammento si coniuga alle esperienze performative, dove la velocità – clamori al vento! – è fatta anche di sculture abbacinanti, quadri di scena, urla strazianti, corpi deformi. Erompendo come malanni agli occhi dello spettatore, essi comprimono l’eternità. Clamori al vento, oltre che un prodigioso testo-performance dove anche la scrittura viene travolta dall’assalto ai limiti dell’umano di Mastrella e Rezza, è la loro dichiarazione poetica, il loro monumentale zibaldone, strumento indispensabile per addentrarsi nell’opera degli artisti che più hanno segnato, e che più segneranno, la nostra contemporaneità.
La noia incarnita
A cura di Rossella Bonito Oliva
(2012)
L’opera di Antonio Rezza e Flavia Mastrella rifiuta da sempre ogni definizione della critica, la canalizzazione in un genere o anche solo la comprensione univoca. Rivolgendosi direttamente ai nostri sensi, frammentari per definizione, estorce infinite realtà dal più piccolo dettaglio, trasfigura l’esistente e lo sovraccarica fino a sconfinare nella mostruosità. La narrazione di Mastrella e Rezza “si scompagina in due voci, ma l’opera e le opere in cui si declina è la stessa: film, spettacoli, performances. Flavia descrive uno spazio/arte-fatto che accoglie mobilitando un corpo, il corpo di Antonio, che come una monade libera un’energia materiale capace di rigenerarlo”.
In “La noia incarnita”, primo libro realizzato su Rezza-Mastrella, Rossella Bonito Oliva segue i due artisti in equilibrio lungo il filo del loro discorso, un filo volutamente sottile, volubile e al contempo articolato, densissimo di significato. Un lungo dialogo a tre che non ha la pretesa di spiegare, di addomesticare: bensì di suggerire, liberare il molteplice attraverso il pensiero e l’arte di Antonio e Flavia. Con un fotoracconto creato da Flavia Mastrella di oltre 150 immagini scattate da Martina Villiger, Stefania Saltarelli, Giulio Mazzi, Giordano Pennisi, Angelo Fratini, Andrea Sabbadini, Ivan Talarico e Franco Barbieri.
Rossella Bonito Oliva insegna Filosofia Morale all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e Filosofia e Teoria dei linguaggi all’Università degli Studi di Napoli “Suor Orsola Benincasa”. Ha lavorato sulla soggettività, sull’interculturalità e su temi legati all’arte e al teatro.
Credo in un solo oblio
(2007)
In una realtà indefinita, eppure così simile alla nostra, Antonio è fermo, immobile, paralizzato da un pensiero ossessivo che lo incatena al suo inferno interiore. Costretto a vivere con sé, ma con la vaga idea che senza sé vivrebbe meglio, Antonio deve tenersi occupato almeno quel tanto da non darsi scampo. Poi, un giorno va a farsi una foto per vedersi chiaro, per una volta come tutti: almeno certificato in un documento. Ma proprio quando è tempo di star fermo fa uno scatto improvviso, e viene mosso nella foto come non riesce a essere nella vita. È un movimento piccolo, la distrazione di un istante: ma basta a escluderlo dal ritratto e a sbalzarlo, per contraccolpo, in tutti quelli dell’umanità, sui quali, da lì in poi, campeggerà per un po’ solo il suo volto. È l’inizio di un lungo viaggio tragicomico in cui la foto diviene frontiera reale e metaforica fra due dimensioni: quella della “vita silenziosa” in cui Antonio di tanto in tanto si rifugia, e quella del mondo reale in cui, con ardore, è determinato a ristabilire un ordine fatto finalmente a misura d’uomo. In un gioco di specchi tra chi è morto da vivo e chi è vivo da morto, Credo in un solo oblio è abitato da uomini che scendono a patti con le ombre e figli che nascono già nonni. Una vicenda surreale, costantemente deformata dalla lente dell’ironia e del paradosso, tratto distintivo dell’autore, il cui talento visionario ci consegna, in questa quarta prova, un’opera matura dai contorni – paradossalmente – iperrealisti. Il risultato è la realtà, sbattuta sulla pagina, del deserto dei sentimenti, la cui impossibilità trasforma il riso – che pure quella pagina muove con picchi davvero esilaranti – nella smorfia amarissima di una disperata urgenza d’amore.
(Francesca Serafini)
… Un’ossessione onirica che sembra trascritta direttamente da un sogno. Un mondo reale (?) e un mondo parallelo simili e terribili, con milioni di ombre inerti, proiezioni, senza identità . Un libro folle e fortemente lirico. Quanti gesti inconclusi in questa valle di morti e di spettri, quante aspirazioni mancate.
Antonio Rezza è unico.
(Franco Battiato)
Son[n]o
(2005)
Anto ha due passioni: il sonno e il lenzuolo di sotto. Vuole imparare a dormire sulla vita che scorre e, di questo, dialoga con il padre. Anto incontra Sonnekj, il vecchio saggio che possiede il sonno assoluto e che gli insegna a diventare un sonnambulo, a dormire un sonno compiuto, limpido e colorato. Anto conosce Ancora, una sonnambula, e se ne innamora. In una prosa surreale e visionaria Antonio Rezza ci dà un testo unico: un inno al sonno come alternativa alla vita che dorme. Ma anche una storia d’amore perché il sonno di chi dorme da solo è bianco e senza colore «e non c’è cosa più bella che vedere una donna che dorme».
Ti squamo
(1999)
Rompo le penne nelle tabaccherie, assalto le cartolerie fornite, rovescio inchiostro sulle strade oppresse e tingo di nero paesaggio e monumenti.
Un romanzo-racconto (direi qualcosa di meno di un romanzo e qualcosa di più di un racconto lungo) che risucchia il lettore in un gorgo che non lo espellerà se non nell’ultima pagina. Un gorgo, un vortice che prende vita da un pensiero che tormenta il protagonista sin dalle prime righe: il cibo e la parola passano attraverso lo stesso canale del nostro corpo, ma il cibo si trasforma in disgustoso scarto, mentre la parola può essere sublime, l’uomo con essa può raggiungere le vette più alte concesse dall’esistenza. Dunque le due funzioni non possono convivere: una delle due va eliminata, naturalmente quella più “bassa”. Tutto il libro è la tormentata ricerca del possesso totale della parola e di ogni sentimento espresso attraverso essa.
Un percorso che arriva all’anoressia fisica, ma che porta con sé anche quella mentale, un’anoressia della parola come menzogna, come significante senza significato. Anche la donna che viene scelta come compagna ha grandi problemi con il cibo, e non potrebbe essere altrimenti. Lei è bulimica e il protagonista lo scopre con disappunto solo spiandola, dopo aver per qualche tempo creduto che oltre al gusto della parola li legasse anche la stessa forma di anoressia: il cibo non si vomita, non si avvicina neppure. Solitudine e isolamento, incomunicabilità espressa anche nel continuo ricercare affinità, senza mai trovarle, senza trovare più nemmeno persone in qualche modo simili. “Mi chiedo all’improvviso perché non ho amici, perché vivo da solo e sempiterno in bilico tra gioia e voglia di amputarmi.
Da piccolo giocavo con i pari d’età e mi divertivo, tanti erano i pari età, dovunque mi girassi vedevo uno che aveva i miei stessi dati anagrafici, le mie simili e medesime esigenze di gioco. Crescendo io dovrebbero esser cresciuti anche i pari età, ed invece non li vedo, forse sono invecchiati e non li riconosco, forse sono scomparsi ed io non l’ho saputo.” C’è molto di autobiografico in queste pagine, è evidente. Traspare nettamente il suo non-amore per il cibo, la visione del nutrirsi come pura necessità di sopravvivenza (e forse si può, si deve sopravvivere alimentandosi solo di parole?) la quasi maniacale ricerca del modo migliore per volgere il pensiero in forma comunicativa. E questo rimanda, sotto molti aspetti, ai temi dei suoi spettacoli teatrali. La scrittura di Rezza è molto raffinata, elaborata, per certi versi “profuma di rinascimento”, di Cecco Angiolieri, di Lorenzo de’ Medici e di Boccaccio. La sua analisi della forma, del termine, la sperimentazione e la ricerca di un linguaggio antico e modernissimo al contempo è operazione molto rara nel panorama letterario italiano.
Non cogito ergo digito
(1998)
Era un autunno di quelli che oltre a far cadere la foglia la spazzano via a colpi di vento, la sbattono contro i marciapiedi, la fanno svolazzare per poi precipitarla a terra, la tramortiscono sotto la pioggia novembrina e la costringono a lunghe nottate all’addiaccio.
Corse a folle velocità, Amori con la “A” maiuscola, con la “a” minuscola o senza nessuna “a”, ripicche, gelosie, tradimenti, risate e lacrime, persone gonfiate a colpi di charleston, viaggi su Giove, esplorazioni, balletti, excursus storici e geografici di pura fantasia e sicura inattendibilità, varia, variabile e variopinta umanità, decine e decine di personaggi, centinaia di scenari diversi, spettacolari scene di massa, con la partecipazione straordinaria(fra gli altri) di Caterina d’Austria, guest star nella parte di sè stessa.
E sopra tutto e tutti un unico protagonista: l’immancabile, parossistico, ineffabile Carlo, grande mattatore che da solo ma con l’aiuto delle sue assurde capacità conduce un gioco al rimpiattino che sa conquistare il lettore fino all’ultima pagina. Una cavalcata frenetica in un mondo dai connotati stravolti, che non conosce regole, non sa cosa sia la logica, non ha mai sentito parlare di continuità spazio-temporale e la cui unica legge è quella della libertà assoluta.
Scritto come un sorprendente talento linguistico e grande senso del ritmo (o meglio ancora del montaggio), comico e picaresco, Non cogito ergo digito si inserisce di diritto nella tradizione del romanzo surreale del ‘900, con l’autorità e il peso di un kolossal in Cinemascope e la leggerezza di un’avventura totale che sa coinvolgere corpo e mente in un’unica, liberatoria e devastante risata.
Clamori al vento
(2015)
Attenzione. Non avvicinarsi a questo libro se non si è disposti a smarrirsi, a smascherare, a essere smascherati. Se non si è disposti a morire intensamente sotto i fuochi della Scintilla. La vera Scintilla, quella dell’arte, quella performativa, è immortale. È capace di sopravvivere a chi l’ha posseduta. Moriremo dolcemente, ferocemente, in un giorno qualunque. La Scintilla naviga, luminescente, verso l’ignoto.
Attenzione. Non avvicinarsi a questo libro se non si è disposti ad accettare che l’unica parola intelligente è quella che si strozza in gola. Dal 1987 Flavia Mastrella e Antonio Rezza condividono il loro percorso artistico. Praticando diverse forme d’arte, hanno fatto del performativo una poetica totemica. Essi erompono come malanni nella vita dello spettatore. Hanno un’ambizione che non è tale perché la soddisfano: perdita del significato residuo e parola alle cifre della carneficina. Irrompono nel teatro devastando il teatro. Generano, in continuazione, fatti nuovi, cortocircuiti, oscurità da eccesso e da difetto. Travolgono e stravolgono. Sfaldano il quotidiano sotto strati di disperatissime strida comiche. Non manipolano il cervello di chi vede: manipolano il corpo di chi guarda.
Si esibiscono sui palchi di questa povera striscia di terra fatta a stivale per galleggiare nella melma e devastano impetuosi i palchi medesimi. Scrivono che il teatro è incivile per definizione. «Un teatro civile per un paese civile è un’utopia non per la civiltà del teatro ma per l’inciviltà del paese.»
Per loro il teatro deve sconfinare. L’arte deve sconfinare. Non c’è nessun futuro per un teatro che privilegia la narrazione allo struggimento.
Dovrebbero esistere leggi speciali che proibiscano la spiegazione di un’opera e impediscano al creatore le menzogne di una storia compiuta. Inscenando corpi corrosi di zoppi, mendicanti e disperati, Flavia Mastrella e Antonio Rezza allestiscono da sempre opere che corrodono; opere dove la poetica del frammento si coniuga alle esperienze performative, dove la velocità – clamori al vento! – è fatta anche di sculture abbacinanti, quadri di scena, urla strazianti, corpi deformi. Erompendo come malanni agli occhi dello spettatore, essi comprimono l’eternità. Clamori al vento, oltre che un prodigioso testo-performance dove anche la scrittura viene travolta dall’assalto ai limiti dell’umano di Mastrella e Rezza, è la loro dichiarazione poetica, il loro monumentale zibaldone, strumento indispensabile per addentrarsi nell’opera degli artisti che più hanno segnato, e che più segneranno, la nostra contemporaneità.
La noia incarnita
A cura di Rossella Bonito Oliva
(2012)
L’opera di Antonio Rezza e Flavia Mastrella rifiuta da sempre ogni definizione della critica, la canalizzazione in un genere o anche solo la comprensione univoca. Rivolgendosi direttamente ai nostri sensi, frammentari per definizione, estorce infinite realtà dal più piccolo dettaglio, trasfigura l’esistente e lo sovraccarica fino a sconfinare nella mostruosità. La narrazione di Mastrella e Rezza “si scompagina in due voci, ma l’opera e le opere in cui si declina è la stessa: film, spettacoli, performances. Flavia descrive uno spazio/arte-fatto che accoglie mobilitando un corpo, il corpo di Antonio, che come una monade libera un’energia materiale capace di rigenerarlo”.
In “La noia incarnita”, primo libro realizzato su Rezza-Mastrella, Rossella Bonito Oliva segue i due artisti in equilibrio lungo il filo del loro discorso, un filo volutamente sottile, volubile e al contempo articolato, densissimo di significato. Un lungo dialogo a tre che non ha la pretesa di spiegare, di addomesticare: bensì di suggerire, liberare il molteplice attraverso il pensiero e l’arte di Antonio e Flavia. Con un fotoracconto creato da Flavia Mastrella di oltre 150 immagini scattate da Martina Villiger, Stefania Saltarelli, Giulio Mazzi, Giordano Pennisi, Angelo Fratini, Andrea Sabbadini, Ivan Talarico e Franco Barbieri.
Rossella Bonito Oliva insegna Filosofia Morale all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e Filosofia e Teoria dei linguaggi all’Università degli Studi di Napoli “Suor Orsola Benincasa”. Ha lavorato sulla soggettività, sull’interculturalità e su temi legati all’arte e al teatro.
Credo in un solo oblio
(2007)
In una realtà indefinita, eppure così simile alla nostra, Antonio è fermo, immobile, paralizzato da un pensiero ossessivo che lo incatena al suo inferno interiore. Costretto a vivere con sé, ma con la vaga idea che senza sé vivrebbe meglio, Antonio deve tenersi occupato almeno quel tanto da non darsi scampo. Poi, un giorno va a farsi una foto per vedersi chiaro, per una volta come tutti: almeno certificato in un documento. Ma proprio quando è tempo di star fermo fa uno scatto improvviso, e viene mosso nella foto come non riesce a essere nella vita. È un movimento piccolo, la distrazione di un istante: ma basta a escluderlo dal ritratto e a sbalzarlo, per contraccolpo, in tutti quelli dell’umanità, sui quali, da lì in poi, campeggerà per un po’ solo il suo volto. È l’inizio di un lungo viaggio tragicomico in cui la foto diviene frontiera reale e metaforica fra due dimensioni: quella della “vita silenziosa” in cui Antonio di tanto in tanto si rifugia, e quella del mondo reale in cui, con ardore, è determinato a ristabilire un ordine fatto finalmente a misura d’uomo. In un gioco di specchi tra chi è morto da vivo e chi è vivo da morto, Credo in un solo oblio è abitato da uomini che scendono a patti con le ombre e figli che nascono già nonni. Una vicenda surreale, costantemente deformata dalla lente dell’ironia e del paradosso, tratto distintivo dell’autore, il cui talento visionario ci consegna, in questa quarta prova, un’opera matura dai contorni – paradossalmente – iperrealisti. Il risultato è la realtà, sbattuta sulla pagina, del deserto dei sentimenti, la cui impossibilità trasforma il riso – che pure quella pagina muove con picchi davvero esilaranti – nella smorfia amarissima di una disperata urgenza d’amore.
(Francesca Serafini)
… Un’ossessione onirica che sembra trascritta direttamente da un sogno. Un mondo reale (?) e un mondo parallelo simili e terribili, con milioni di ombre inerti, proiezioni, senza identità . Un libro folle e fortemente lirico. Quanti gesti inconclusi in questa valle di morti e di spettri, quante aspirazioni mancate.
Antonio Rezza è unico.
(Franco Battiato)
Son[n]o
(2005)
Anto ha due passioni: il sonno e il lenzuolo di sotto. Vuole imparare a dormire sulla vita che scorre e, di questo, dialoga con il padre. Anto incontra Sonnekj, il vecchio saggio che possiede il sonno assoluto e che gli insegna a diventare un sonnambulo, a dormire un sonno compiuto, limpido e colorato. Anto conosce Ancora, una sonnambula, e se ne innamora. In una prosa surreale e visionaria Antonio Rezza ci dà un testo unico: un inno al sonno come alternativa alla vita che dorme. Ma anche una storia d’amore perché il sonno di chi dorme da solo è bianco e senza colore «e non c’è cosa più bella che vedere una donna che dorme».
Ti squamo
(1999)
Rompo le penne nelle tabaccherie, assalto le cartolerie fornite, rovescio inchiostro sulle strade oppresse e tingo di nero paesaggio e monumenti.
Un romanzo-racconto (direi qualcosa di meno di un romanzo e qualcosa di più di un racconto lungo) che risucchia il lettore in un gorgo che non lo espellerà se non nell’ultima pagina. Un gorgo, un vortice che prende vita da un pensiero che tormenta il protagonista sin dalle prime righe: il cibo e la parola passano attraverso lo stesso canale del nostro corpo, ma il cibo si trasforma in disgustoso scarto, mentre la parola può essere sublime, l’uomo con essa può raggiungere le vette più alte concesse dall’esistenza. Dunque le due funzioni non possono convivere: una delle due va eliminata, naturalmente quella più “bassa”. Tutto il libro è la tormentata ricerca del possesso totale della parola e di ogni sentimento espresso attraverso essa.
Un percorso che arriva all’anoressia fisica, ma che porta con sé anche quella mentale, un’anoressia della parola come menzogna, come significante senza significato. Anche la donna che viene scelta come compagna ha grandi problemi con il cibo, e non potrebbe essere altrimenti. Lei è bulimica e il protagonista lo scopre con disappunto solo spiandola, dopo aver per qualche tempo creduto che oltre al gusto della parola li legasse anche la stessa forma di anoressia: il cibo non si vomita, non si avvicina neppure. Solitudine e isolamento, incomunicabilità espressa anche nel continuo ricercare affinità, senza mai trovarle, senza trovare più nemmeno persone in qualche modo simili. “Mi chiedo all’improvviso perché non ho amici, perché vivo da solo e sempiterno in bilico tra gioia e voglia di amputarmi.
Da piccolo giocavo con i pari d’età e mi divertivo, tanti erano i pari età, dovunque mi girassi vedevo uno che aveva i miei stessi dati anagrafici, le mie simili e medesime esigenze di gioco. Crescendo io dovrebbero esser cresciuti anche i pari età, ed invece non li vedo, forse sono invecchiati e non li riconosco, forse sono scomparsi ed io non l’ho saputo.” C’è molto di autobiografico in queste pagine, è evidente. Traspare nettamente il suo non-amore per il cibo, la visione del nutrirsi come pura necessità di sopravvivenza (e forse si può, si deve sopravvivere alimentandosi solo di parole?) la quasi maniacale ricerca del modo migliore per volgere il pensiero in forma comunicativa. E questo rimanda, sotto molti aspetti, ai temi dei suoi spettacoli teatrali. La scrittura di Rezza è molto raffinata, elaborata, per certi versi “profuma di rinascimento”, di Cecco Angiolieri, di Lorenzo de’ Medici e di Boccaccio. La sua analisi della forma, del termine, la sperimentazione e la ricerca di un linguaggio antico e modernissimo al contempo è operazione molto rara nel panorama letterario italiano.
Non cogito ergo digito
(1998)
Era un autunno di quelli che oltre a far cadere la foglia la spazzano via a colpi di vento, la sbattono contro i marciapiedi, la fanno svolazzare per poi precipitarla a terra, la tramortiscono sotto la pioggia novembrina e la costringono a lunghe nottate all’addiaccio.
Corse a folle velocità, Amori con la “A” maiuscola, con la “a” minuscola o senza nessuna “a”, ripicche, gelosie, tradimenti, risate e lacrime, persone gonfiate a colpi di charleston, viaggi su Giove, esplorazioni, balletti, excursus storici e geografici di pura fantasia e sicura inattendibilità, varia, variabile e variopinta umanità, decine e decine di personaggi, centinaia di scenari diversi, spettacolari scene di massa, con la partecipazione straordinaria(fra gli altri) di Caterina d’Austria, guest star nella parte di sè stessa.
E sopra tutto e tutti un unico protagonista: l’immancabile, parossistico, ineffabile Carlo, grande mattatore che da solo ma con l’aiuto delle sue assurde capacità conduce un gioco al rimpiattino che sa conquistare il lettore fino all’ultima pagina. Una cavalcata frenetica in un mondo dai connotati stravolti, che non conosce regole, non sa cosa sia la logica, non ha mai sentito parlare di continuità spazio-temporale e la cui unica legge è quella della libertà assoluta.
Scritto come un sorprendente talento linguistico e grande senso del ritmo (o meglio ancora del montaggio), comico e picaresco, Non cogito ergo digito si inserisce di diritto nella tradizione del romanzo surreale del ‘900, con l’autorità e il peso di un kolossal in Cinemascope e la leggerezza di un’avventura totale che sa coinvolgere corpo e mente in un’unica, liberatoria e devastante risata.